La differenza tra gioiello e bijoux è un’anomalia tutta italiana che separa, divide e definisce, dal punto di vista linguistico come di quello del valore, un ornamento in materiali preziosi -gemme e metalli – da uno non prezioso. Etimologicamente bijoux deriva dal francese e significa gioiello prezioso laddove l’ornamento non prezioso è indicato come bijoux de couture. Lo stesso vale per le classificazioni anglosassoni che con la consueta esattezza scandiscono gli ambiti di pertinenza: il gioiello prezioso definisce la fine jewellery mentre quello non prezioso appartiene alla costume o alla fashion jewellery.

Ma se fino agli anni Sessanta esisteva una linea di demarcazione netta tra gioiello e bijoux tale differenza è sempre più difficile da definire e argomentare oggi che la linea di confine è sbiadita nella varietà – di contenuti e di valori – dell’ornamento contemporaneo e il valore materiale delle gemme e dei metalli è stato affiancato – e spesso superato – da valori immateriali quali l’idea, il concetto o il progetto. A ciò si aggiunge la promiscuità dei canali di distribuzione che favorisce e alimenta tale ambiguità semantica e commerciale. Lo dimostrano le vetrine dei gioiellieri dove come in una salad bowl si mescolano alta gioielleria, bijoux fantasia e oggettistica varia.Tanto per i francesi quanto per gli inglesi, dunque, non è il gioiello – jewellery o bijoux- che trasferisce la preziosità dell’oggetto quanto l’aggettivo che lo qualifica: – fine, high, magnificent, couture, costume, fantaisie, fashion, …. Si tratta di una precisazione nodale perché in entrambi i contesti non vi è alcuna indicazione valoriale ma solo di ambito disciplinare. In Italia, invece, la distinzione si fa schizzinosa soprattutto per la differenza di valore e di contesto tra il gioiello e il bijoux. La presunta inferiorità di quest’ultimo si basa sulla non preziosità dei materiali impiegati e sulla scarsa inventiva derivata dalla riproposizione dei modelli preziosi. In realtà il gioiello del Novecento deve molto al bijoux, decisamente più di quanto quest’ultimo non debba al cugino prezioso, al punto che le sue principali innovazioni sono mutuate dall’ornamento non prezioso che aveva maggiore libertà di sperimentare e indagare i nuovi ambiti e i nuovi materiali. Dalle tecniche di taglio dei diamanti fino agli accessori per capelli e per abiti dell’Art Nouveau e Decò il gioiello prezioso ha trasferito dal bijoux per tutto in Novecento tanto le tecnologie produttive quanto i contesti di applicazione e gli stili di riferimento.

Ne consegue che il prezzo e la presenza in gioielleria non rappresentano più quelle linee di demarcazione inviolabili e inequivocabili tra gioiello e bijoux che erano nel passato. I primi a violare il confine della materia preziosa sono stati gli artisti. Si pensi per esempio ad Alexander Calder, i cui eterei gioielli in fil di ferro non rappresentano di certo il valore della materia ma quello del concetto unito al valore artistico dell’autore. Analogamente i gioielli dei principali artisti del Novecento, da Picasso a Fontana, da Salvador Dalì a Damien Hirst hanno deliberatamente rinnegato il valore materiale a vantaggio di quello artistico. Ma erano artisti, si obietterà, le loro erano sculture da corpo non gioielli. Le avanguardie olandesi e britanniche hanno poi radicato la ricerca del valore concettuale anche tra gli orafi. A quel punto materiali poveri come la carta, il ferro, le plastiche, il vetro sono entrati stabilmente nel lessico dell’ornamento, senza preclusioni geografiche o disciplinari. Dalle meravigliose gorgiere in carta di Nel Linnsen ai grovigli in resina di Gaetano Pesce, dalle sperimentazioni in plexiglas di Gijs Bakker alle sfumature in niello di Giampaolo Babetto o alla sofisticata eleganza dell’acciaio serigrafato di Giancarlo Montebello.

Ornamenti ad alto potenziale creativo realizzati con materiali non preziosi. Nessuno mai li ha chiamati bijoux. Come mai? Forse perché una delle caratteristiche distintive del bijoux è la produzione industriale, sia in termini di numeri che di processi produttivi mentre questi sono evidentemente dei pezzi unici o delle piccole serie. Ad esclusione dei bijoux de couture – pezzi unici e prototipi realizzati espressamente per la sfilata – la principale differenza tra il gioiello e il bijoux sussiste proprio nella capacità produttiva di quest’ultimo che per primo ha trasferito all’ornamento i numeri e i processi della produzione industriale. Nei distretti industriali del bijoux come Providence negli Stati Uniti, Pforzheim in Germania o Casalmaggiore in Italia erano prodotti migliaia di pezzi realizzati secondo logiche di processo industriali. Tutto il ciclo – ricerca, progetto, produzione, distribuzione, comunicazione – era considerato un processo unitario e coerente che oggi definiremmo design driven. La potenza delle aziende americane o tedesche giaceva non soltanto nella loro capacità produttiva ma anche nel riconoscimento del loro valore da parte del sistema economico e sociale. Quando nel 1953 Mamie Doud Eisenhower esibì una parure di perle di Trifari al ballo per la presidenza del marito fu il segnale del cambiamento, la svolta che il gioiello fantasia era riuscito a sintetizzare tradizione e innovazione, progresso ed eleganza. Al bijou italiano è mancato tale riconoscimento con il risultato che si sono dispersi saperi e archivi, maestri e tecniche, e non gli è mai stata riconosciuta dignità merceologica o cultura di prodotto. Non aiutano neanche i sedicenti designer che passano con insopportabile disinvoltura dal gioiello d’autore al bijou senza capirne e conoscerne la differenza e inquinando così i caratteri distintivi di entrambi.

Il bijoux italiano ha enormi potenzialità. Deve solo ri-scoprirle. Ora. 

Alba Cappellieri, Prof.ssa di Design del gioiello al Politecnico di Milano